Il teatro

Da Cap2.

CIVILTÀ E LETTERATURA LATINA


PARTE PRIMA - L'ETÀ ARCAICA


CAPITOLO 4 - IL TEATRO


Indice

IL TEATRO

È bene sgomberare il campo da ogni possibile equivoco: a Roma il teatro non ebbe mai la rilevanza avuta nell’antica Grecia, dove costituiva il perno della vita politica e religiosa, o, per parlare di tempi più recenti, nell’Inghilterra dell’epoca elisabettiana o anche nella Francia di Luigi XIV.
Nell’antica Roma l’attività teatrale fu sempre poco importante, al punto che fino al tempo di Silla non esistettero strutture fisse per tale attività. Il teatro altro non era che un’impalcatura di legno sulla quale si esibivano gli artisti. A questo si aggiunga, poi, che la professione di attore era considerata addirittura infamante per il cittadino romano al punto che l’attore professionista, per legge, era colpito da infamia. Dimostrazione ulteriore della scarsa incidenza del teatro nella cultura romana, poi, c’è la quasi totale assenza della tragedia nella letteratura latina. D’altra parte, ben diversamente dal coevo greco, quello latino, popolo pratico, concreto e legato alla terra, si esprimeva meglio con la commedia che con migliori risultato interpretava la vecchia anima italica. Ed il teatro latino, come d’altra parte tutti gli altri generi letterari, risente delle solite tre culture che hanno formato il patrimonio di conoscenze di quel popolo: l’etrusca, la greca e l’italica. Considerevole è soprattutto l’influsso etrusco.
Dagli etruschi derivano i termini “histriones”, per indicare gli attori, e persona (phersu), per indicare la maschera degli attori, ma soprattutto, cosa ancora più importante, l’usanza di allestire spettacoli pubblici con canti e danze, in occasione di ricorrenze pubbliche o di feste religiose. Di origine etrusca, poi, erano anche i versi fescennini, le rozze rappresentazioni agresti piene di scherzi grossolani, lazzi, volgari frasi oscene ed espressioni salaci, dove all’arte musicale tirrenica si univa la mordace spiritosità latina. Il fescennino si evolve e progredisce diventando “satura”, una rappresentazione scenica ancora rudimentale dove predomina la musica e la danza. La presenza di attori e maschere faceva perdere alla satura il carattere dell’improvvisazione fescennina anche se non possiamo parlare di teatro vero e proprio. L’atellana, invece, risente dell’ambiente osco-italico. Essa è ancora affidata all’estemporaneità e all’estro degli attori, giacché non esistevano copioni scritti, ma con le sue maschere fisse e tipiche rappresenta un ulteriore passo avanti del teatro popolare.
Alla tradizione greca sono legati i grandi autori latini sia per l’uso della “contaminatio”, sia per l’imitazione e l’elaborazione cui sovente fecero ricorso.


LA COMMEDIA

PLAUTO (ca. 255 - 184 a.C.)

Plauto fu senza dubbio il massimo commediografo latino e per la qualità e la tecnica va a braccetto con il grande collega greco Aristofane, di due secoli più anziano.
La vita
Della vita di Plauto si conosce ben poco, anche il nome è dubbio: Marco Accio o Tito Maccio (la seconda ipotesi è, però, quella normalmente accettata), mentre il cognome Plauto gli sarebbe derivato dal difetto fisico dei piedi piatti.
Tito Maccio Plauto nacque a Sarsina (allora in Umbria ed oggi in Romagna, nella provincia di Forlì) verso il 255 a.C.. Lasciato il paese natio, si trasferì a Roma e si dedicò al commercio effettuando, di conseguenza, molti viaggi. Dalle “Notti attiche” di Aulo Gellio apprendiamo che, avendo perso ogni suo avere in un dissesto finanziario, Plauto ritornò nell’Urbe dove, per vivere e per pagare i debiti contratti, fu costretto a girare la macina di un mugnaio. In quella condizione umiliante si ritiene che abbia scritto le sue prime commedie (Saturio, cioè il Panciapiena, e l’Addictus, cioè l’Indebitato). Il successo ottenuto gli avrebbe assicurato il riscatto da quella condizione servile e l'inizio di una brillante carriera teatrale. Se anche le cose non fossero andate proprio così, sicuro è che dalle allusioni nelle commedie si deduce che i primi anni di Plauto furono molto difficili ed egli conobbe miseria e sofferenza. Forse è per questo motivo che in seguito fu sempre un sostenitore di poveri e derelitti.
Tito Maccio Plauto morì probabilmente a Roma nel 184 a.C., anno in cui Marco Porcio Catone diventò censore .
Le opere
Dopo la sua morte, sotto il nome di Plauto circolavano 130 commedie, non tutte autentiche. I grammatici latini si adoperarono per distinguere tra esse le autentiche e le spurie. La scelta più accreditata fu quella di Varrone, che ne indicò come sicuramente autentiche 21, dubbie 19, sicuramente spurie 90. Le 21 "varroniane" sono quelle giunte fino a noi, e cioè: Amphitruo (Anfitrione), Asinaria (La commedia degli asini), Aulularia (La commedia della pentola), Bacchides (Le Bacchidi), Captivi (I prigionieri), Casina (La sorteggiata), Cistellaria (La commedia della cassetta), Curculio (Il roditore), Epidicus (Epidico), Menaechmi (I Menecmi), Mercator (Il mercante), Miles gloriosus (Il soldato millantatore), Mostellaria (La commedia dello spettro), Persa (Il persiano), Poenulus (Il giovane cartaginese), Pseudolus (Pseudolo), Rudens (La gomena), Stichus (Stico), Trinummus (Le tre monete), Truculentus (Lo zoticone) e Vidularia (La commedia del baule) giunta mutila.
Difficile la datazione di tutte queste opere o almeno la loro disposizione cronologica, che si è tentato tuttavia di stabilire in vario modo (allusioni interne ad avvenimenti contemporanei, disposizione metrica, tecnica teatrale). Si propende oggi, nel complesso, a collocare fra le più antiche Mercator, Asinaria, Miles gloriosus, Cistellaria, a considerare centrali lo Stichus, Amphitruo, Menaechmi, Curculio, Rudens, Aulularia, Persa, Poenulus, Mostellaria, Epidicus, e tra le ultime Pseudolus, Bacchides, Trinummus, Captivi, Truculentus, Casina.
Proprietà delle commedie
Quelle di Plauto sono tutte commedie del genere delle palliate, ossia ambientate in Grecia e secondo lo schema corrente della Commedia Attica Nuova. Plauto si ispira soprattutto a Difilo, Filemone e Menandro. Sui loro modelli innesta poi spunti farseschi tradizionali, di repertorio, derivati dall'antico teatro latino, osco, etrusco e arricchito da motivi popolareschi. Solo in qualche caso si può parlare di una vera e propria contaminazione di più originali in un'unica opera (nel Miles per esempio). Le situazioni e la trama sono quasi costanti: giovani scapestrati a cui si oppongono genitori intransigenti, collaborazione di un servo astuto agli amori del giovane con una ragazza di umile condizione o con cortigiane sfruttate da lenoni; soluzione finale favorevole agli amanti, con premio per il servo.
Poche sono in Plauto le variazioni, come pure gli interventi collaterali di figure farsesche minori (cuochi, soldati, parassiti, cameriere, ecc.); anche i protagonisti sono irrigiditi in tipi, senza quasi mai alcuna nota psicologica che li caratterizzi singolarmente (qualche eccezione si può notare, per esempio, nel protagonista avaro dell'Aulularia o nel padre sofferente dei Captivi o nella giovane Selenio della Cistellaria). La trama stessa contiene a volte delle incongruenze, delle complicazioni eccessive o degli sbandamenti, per la negligente inserzione in essa di spunti estranei.
Originalità
L'originalità di Plauto (difficile da stabilire anche per la perdita di tutti i suoi modelli greci) sta nella sapiente tecnica della composizione, nell'inventiva comica, legata soprattutto agli effetti delle parole e della metrica. Plauto è totalmente volto al riso, al divertimento dello spettatore. Di qui le sue scoppiettanti invenzioni verbali, gli intrecci ed i giochi di parole, le assonanze buffe, gli equivoci e le oscenità, i doppi sensi inesauribili. Il suo è uno stile che attinge largamente a modi e a effetti popolareschi, con colori di abbagliante immediatezza, ma anche rigoroso, ben studiato e portato con ogni mezzo a un chiaro livello letterario (Varrone ne fu entusiastico ammiratore). In secondo luogo Plauto si serve di una grande maestria metrica per introdurre sempre più ampiamente nel dialogo squarci di ricca varietà ritmica, cantati con accompagnamento musicale, che danno un crescente sapore di commedia musicale ai suoi drammi. I “cantica” sono anzi l'aspetto più originale e tipico del suo teatro. Forse già preesistenti nel teatro italico (da alcuni critici accostati, invece, alle parti liriche della tragedia greca), essi comunicano alla commedia plautina varietà e sbrigliatezza fantastica, che si aggiunge, con irresistibile effetto esilarante, alla rapidità del movimento scenico. Tutto questo raggiunge spesso la sguaiatezza, e comunque Plauto non fa che assecondare i gusti di un pubblico composito, ma in cui predomina l'elemento popolare, e nello sfruttare, anche ripetutamente, mezzi scenici tradizionali tanto che, per queste tecniche, per questi ritrovati e per questi effetti, più che al teatro ellenistico, il suo teatro può essere avvicinato a quello di Aristofane. Il suo è del resto un "aceto" tipicamente italico, e tale rimane anche nelle forme esteriori greche che assume. Tutto ciò spiega il suo enorme successo popolare, accompagnato però anche, miracolosamente, dal compiacimento dei letterati.
Nazionalismo
Plauto ricava i personaggi delle sue commedie direttamente dalla realtà romana, ma poi li trapianta in Grecia: questo era motivo di grande risate per il pubblico, ma assumeva anche un atteggiamento critico dell’autore verso quel paese, atteggiamento accresciuto dal fatto che quando Plauto utilizza parole greche, lo fa sempre con fini caricaturali. Che non sia un amante della cultura ellenica, ce ne accorgiamo da tanti altri particolari: ad esempio, quando vuol designare un modo di vita frivolo, egli dice “pergraecari” e per significare dissipazione di ricchezze, dice “congraecari aurum”. Come si vede, il suo è uno spirito decisamente anti ellenico e Plauto può essere considerato un altro difensore della latinità, a braccetto con Catone e Lucilio.

CECILIO STAZIO (ca. 230- 166 a. C.)

La vita
Caio Cecilio Stazio era di origine gallica. Nato probabilmente a Milano verso il 230 a.C., fu portato a Roma, come schiavo o prigioniero di guerra, come era già successo a Livio Andronico e come succederà poi a Publio Terenzio Afro.
Nell’Urbe Cecilio Stazio si distinse per le sue doti letterarie e per il suo ingegno. Grazie a ciò, egli fu affrancato dal suo padrone, un certo Cecilio, prendendone anche il nome. Il commediografo studiò e lavorò anche con il grande Ennio, nonostante quest’ultimo fosse di qualche anno più anziano di lui. Il luogo della morte di Cecilio Stazio, che avvenne nel 166 a.C.. ci è ignoto.
Le opere
Come commediografo, Cecilio Stazio conobbe il successo in teatro solo dopo la scomparsa di Plauto e anche grazie all’appoggio di Lucio Ambivio Turione, un acclamato attore dell’epoca. Da allora, e per un ventennio, fu il dominatore della scena comica romana. Di lui conosciamo una trentina di titoli (Plocium, Exul, Gamos, Synephebi), ma solo 300 versi delle sue commedie. Giudizio
Cecilio Stazio imitò Menandro, o piuttosto lo rielaborò in modo originale, senza utilizzare l'artificio della “contaminazio”. La sua comicità assomiglia più a quella corposa e rusticana di Plauto che a quella delicata di Menandro e di Terenzio. Non mancano, però, alcuni spunti d'introspezione psicologica divenuti poi tipici di Terenzio stesso. Si può dire, senza paura di sbagliare, che quello che distingue meglio Cecilio è proprio la sentenziosità, la riflessione a volte etica, a volte amara e pensosa, spesso carica di umanità, come abbiamo visto anche in Plauto. Fortuna
Il motivo della perdita totale delle opere di Cecilio Stazio è da attribuire sicuramente al fatto che egli fu schiacciato tra i due giganti del teatro romano, Plauto che lo precedette e Terenzio che lo seguì. In ogni modo è, però, davvero strano che non si sia conservato proprio niente delle sue opere perché Cecilio fu un comico di immenso valore. Gli antichi, infatti, ne avevano un'altissima considerazione: fu ammirato da Terenzio; alla fine del II secolo a.C. il grammatico ed erudito Volcacio Sedigito, autore di un elenco ufficiale dei comici latini, lo metteva al primo posto della classifica; Terenzio Varrone gli assegnava la palma nella scelta dei soggetti e nel modo di trattarli; Orazio, nell’Ars Poetica, gli riconobbe l’eccellenza nella serietà dei sentimenti. Cecilio Stazio, infine, fu giudicato il massimo dei comici romani, dunque anteposto a Plauto stesso, persino da Cicerone, che pure gli rimproverava difetti nell'espressione latina.
Un giudizio non proprio lusinghiero lo abbiamo, però, da Aulo Gellio che ci ha riportato tre passi della commedia “Plocium”. Orbene, Gellio, confrontando il testo di Cecilio con quello di Menandro, che il latino avevo preso a modello, ritiene Cecilio nettamente inferiore al greco, in un rapporto oro (Menandro) – bronzo (Cecilio) … il giudizio conclusivo di Gellio “Cecilio non doveva imitare ciò che non era capace di eguagliare” sembra, però, davvero eccessivo e troppo severo.

TERENZIO (ca. 185-? ca. 159 a. C.)

La vita
Publio Terenzio Afro, africano di origine, nacque a Cartagine verso il 185 a.C.. In giovane età fu portato schiavo a Roma dal senatore Terenzio Lucano, il quale lo fece educare e, successivamente, lo affrancò per le qualità del suo ingegno. Terenzio entrò, quindi, a far parte del Circolo degli Scipioni e ne condivise in tutto lo spirito e gli ideali. In particolare il commediografo fu amico di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio dei quali, poi, fu accusato di essere il portavoce. Dal 166 al 160 a.C. scrisse sei commedie. Correva la voce, però, che egli non ne fosse l'autore e che sotto il suo nome si celasse quello dei suoi potenti protettori. Si malignava, infatti, che, non essendo consono al rango di uno Scipione o di un Lelio lo scrivere commedie, le stesse erano attribuite a Terenzio che quindi non avrebbe merito alcuno. Il poeta fu amareggiato da queste accuse e per questo motivo, dopo la composizione dell'ultima commedia, partì per la Grecia con l’intenzione di raccogliere i testi delle opere di Menandro, il commediografo greco cui si ispirava e del quale sembrava avere lo stesso destino.
Terenzio non fece mai ritorno a Roma. Forse perì nel naufragio della nave che lo doveva riportare in Italia o, probabilmente, morì di dolore per la perdita dei suoi libri durante il naufragio.
La morte di Terenzio, quindi, dovrebbe essere avvenuta verso il 159 a.C..
Le opere
Le sei commedie di Terenzio si sono tutte conservate e in un ordine cronologico congetturale sono: Andria (La donna di Andro), Heautontimoroumenos (Il punitore di se stesso), Eunuchus (L'eunuco), Phormio (Formione), Hecyra (La suocera), Adelphoe (I fratelli).
Giudizio
Le commedie di Terenzio ricalcano da vicino modelli greci, soprattutto Menandro, e ripetono le trame tipiche del teatro comico ellenistico. In questo canovaccio, però, Terenzio inserì uno spirito nuovo, personaggi e problemi regolati sul proprio tempo, in cui la romanità prende un profilo diverso da quello tradizionale e che potremmo definire più moderno. Il teatro di Terenzio fu, anzi, uno dei più sensibili e potenti mezzi di espressione di questa tendenza dello spirito romano, ben incarnato nel circolo filoellenico di Scipione. Il problema dei modelli a cui si sarebbe ispirato rimane, però, irrisolto anche per la critica moderna, stante la perdita, per noi, degli stessi. Il teatro di Terenzio, proprio per la sua novità, era destinato a suscitare polemiche e non fu sempre ben accolto dal pubblico, che preferiva spettacoli più mossi e più elementari. L'arte di Terenzio, invece, si esercitava in un trattamento elegante della trama e dei personaggi, che non erano più rappresentati sguaiati e goffi, ma, al contrario, sensibili, gentili e pieni di umanità. Quella di Terenzio non era una comicità sfrenata, ma contenuta e sottile; agli intrecci si mescolavano problemi di natura familiare e psicologica, come il rapporto fra genitori e figli, e la responsabilità reciproca degli sposi. Anche il suo verso non è così vario e sonante come quello di Plauto, ma armonioso e la lingua è sfumata ed elegante.

LA FABULA TOGATA

Plauto, Cecilio Stazio e Terenzio furono i tre grandi della commedia latina di ispirazione greca. Contemporaneamente, però, per naturale reazione dello spirito latino contro la supremazia ellenica, reazione che già si era vista con Catone il Censore e Nevio, si affermò un teatro di ispirazione nazionale, più popolaresco e grossolano, detto fabula togata. Il nome, forse non tutti sanno, gli fu dato perché gli attori non indossavano il pallio greco, ma la toga, indumento tipicamente romano. In questo genere di teatro si rispecchiava la vita del ceto più umile della società e gli ambienti non erano mai signorili o raffinati, bensì rozzi e grossolani. Proprio per gli ambienti che portava in scena, la fabula togata fu detta anche tabernaria, vale a dire “di taverna” (o di bottega).
Il successo di questo genere di commedia fu piuttosto breve soprattutto perché soddisfaceva sempre meno il palato dei romani che, per contro, diventavano sempre più esigenti e raffinati. Tutta la produzione degli autori di fabulae togatae, purtroppo, salvo pochi frammenti, è andata perduta.
In ogni modo, gli autori più importanti di questo genere furono Titinio, Afranio ed Atta. Dei tre il più rilevante fu senza dubbio Lucio Afranio, vissuto nell'età dei Gracchi e di Mario e Silla. Di lui, che fu grande ammiratore di Terenzio, ci restano 400 versi e 43 titoli. Le commedie più famose furono: “Compitalia”, ispirata alle feste nei crocicchi delle strade, e “Consabrini” (I cugini). In quest’ultima l’autore affronta il tema pedagogico dell’educazione dei figli: Afranio era per la mitezza e la comprensione.
Di Tito Quinzio Atta, morto nel 77 a.C., ci restano 11 titoli, tra cui Tiro Proficiscen, e pochi versi.

L’ATELLANA

Più che dalla fabula togata, in verità, l’espressione del teatro indigeno è rappresentata dalla Fabula Atellana. Questo tipo di commedia proveniva, come anche il nome ci dice, dalla città di Atella, in Campania. A differenza della palliata e della togata che avevano personaggi scelti liberamente, l’atellana aveva personaggi fissi. Essa è detta commedia delle maschere perché gli attori, per rappresentarla, si mettevano appunto le maschere e si vestivano come il personaggio che interpretavano.
E così come la “commedia dell’arte” aveva i vari Pantalone, Arlecchino e Pulcinella, anche l’atellana aveva i suoi personaggi specifici. C’era Maccus, tonto e fesso, ed il vecchio babbeo Pappus, raggirato da tutti ed in tutti i modi, specialmente nelle sue voglie amorose; Bucco, ciarliero e mangione, era il terzo personaggio tipico, il cui nome deriva da bucca, cioè la bocca appunto per parlare e per mangiare; infine c’era Dossenus, il gobbo (da dorsum cioè dorso). Questi erano le fonti del riso popolare, erano essi a far divertire gli spettatori e, con le loro canagliate e buffonate, dare al popolo allegria grassa e spensierata.
Nel periodo di Plauto e Terenzio, l’atellana, per la natura ed il carattere popolare, non ebbe vita artistica propria; non aveva, infatti, un copione scritto e la sua trama era lasciata all’improvvisazione degli attori. Nel periodo di Silla, però, visse un periodo di buona prosperità ed assurse a genere letterario.
Uno tra i più noti autori di atellane dell'età di Silla fu Novio, di cui ci rimangono solo 44 titoli ed un centinaio di versi, spesso gustosi per le invenzioni linguistiche e le bizzarre metafore. Tra i titoli ricordiamo Bubulcus, Pappus Praeteritus, Maccus, Bucculus ed Hercules coactor.
Altro grande scrittore di atellane fu Lucio Pomponio, bolognese.
Contemporaneo di Novio, e quindi vissuto nel I secolo a.C., Pomponio fu con lui il principale autore di farse atellane, che portò anzi a forma letteraria. Pomponio coltivò anche la fabula togata e la parodia mitologica. Di questo autore si conoscono 70 titoli di sue opere e circa 200 brevissimi frammenti, che, in ogni modo, ci mostrano un linguaggio popolare e scene di vita quotidiana di immediata comicità.
Purtroppo di tutte le opere di questo autore ci resta quasi niente: pochi versi anche se con tantissimi titoli. In ogni modo le farse più comiche dovevano essere quelle che riguardavano la sfera delle competizioni elettorali, sul cui argomento scrissero sia Novio sia Pomponio. Più di tutte doveva suscitare il riso quella intitolata Pappus Praeteritus (cioè Pappo sconfitto alle elezioni), tanto più che la sconfitta elettorale era per i romani una grandissima umiliazione.
Altre commedie si reggevano sul classico e sempre umoristico scambio di persona o sull’equivoco, come “Macci gemini” (i gemelli Macci) di Pomponio e “Duo Dossenni” di Novio, senza tralasciare i ridicoli travestimenti, come “Maccus virgo” (Macco travestito da ragazza), anche questa di Pomponio. Come si è detto, dai frammenti non è possibile farsi un’idea chiara dell’Atellana; pertanto il miglior documento su questo genere teatrale resta la scenetta riportata da Orazio nella quinta satira del Libro I, dove è descritta la gara buffonesca tra Sarmento e Messio Cicirro. In essa non c’è alcuna delle maschere fisse che conosciamo, ma si incontra un certo Messio Cicirro, di origine osca ... E piace pensare che Cicirro, che significa galletto, sia l’antenato di Pulcinella, anch’esso “pulcino”, anche perché proveniente dalla stessa terra.

IL MIMO

Nell’età di Cesare, per merito di Laberio, un romano, e di Publio Siro, un forestiero, un altro genere teatrale raggiunse una propria dignità letteraria ed autonomia: il mimo. A proposito di questo, si può tranquillamente affermare che esso non è certo un’invenzione latina o italica, ma è un’arte nata con l’uomo (dal greco mìmesis = imitare). Anche dal punto di vista letterario, il mimo non è indigeno poiché già aveva avuto la sua consacrazione nel mondo greco con il siracusano Sofrone (secolo V a.C.) e, soprattutto, in epoca ellenistica, con Eroda (o Eronda), vissuto nel III secolo a.C., autore dei famosi Mimiambi (mimi in giambi). Nella Magna Grecia, in ogni caso, il mimo era stato sempre fiorente, ma, non essendo scritto, era affidato all’estro ed all’improvvisazione degli attori, una specie di commedia dell’arte.
La fortuna del mimo aumentò quando, dal 173 a.C., diventò lo spettacolo che accompagnava le Floralia, le feste primaverili in onore della dea Flora. Caratteristiche di questo spettacolo erano sia il fatto che in esso recitavano anche le donne sia la sua estrema licenziosità che scandalizzava i personaggi più morigerati, come Catone l’Uticense che in un’occasione uscì disgustato dallo spettacolo.
Verso la metà del I secolo a.C. con Laberio il mimo diventò genere letterario scritto.

LABERIO (106 a.C. – 43 a.C.)

Decimo Laberio nacque nel 106 a,C.. Cavaliere romano, scrisse mimi satirici e, per un lungo tempo, a Roma non ebbe rivali. Tra i destinatari delle sue critiche c’erano anche personaggi altolocati e potenti, fra i quali molto spesso Giulio Cesare. Il dittatore, però, trovò l’occasione per vendicarsi degli strali che gli erano scagliati quando a Roma giunse lo schiavo, poi affrancato, Publilio Siro. In che modo? Cesare obbligò Laberio, allora sessantenne, a sostenere una sfida, in sua presenza e sotto il suo giudizio, contro di quello. Per Laberio si trattava di una vera ignominia, sia per la sua condizione sociale, sia perché era vergognoso per un romano recitare in teatro.
In ogni modo, Laberio, obtorto collo, affrontò la sfida … ma fu sconfitto. Cesare non volle infierire oltre, anzi, come spesso era solito fare con gli avversari, gli fece addirittura un regalo come segno di magnanimità.
Il mimografo, però, pur in quella situazione umiliante, trovò modo di scoccare una terribile frecciata: “Porro, quirites, libertatem perdimus … Necesse est multos timeat quem multi timent” (Ormai, o Quiriti, perdiamo la libertà! Però chi da molti è temuto deve per forza temere molti). A queste parole, ci dice Macrobio che riporta il passo, tutti gli spettatori si volsero a guardare Cesare.
Di questo autore abbiamo molti titoli ed un centinaio di versi.
Laberio morì a Roma nel 43 a.C..

PUBLILIO SIRO (sec. I a. C.)

Publilio Siro da Antiochia, dove era nato, giunse a Roma schiavo, ma poi ottenne la libertà. Si dedicò con grande successo alla composizione di mimi e Cesare stesso lo pose a confronto sulle scene col vecchio Laberio, che ne uscì sconfitto. Dell'opera di Publilio possediamo solo due titoli, Murmurco e Putatores, per giunta di lezione incerta. Ci sono stati, però, tramandati in una raccolta di età imperiale, in senari giambici dal titolo Publilii Syri Sententiae, circa 700 versi (forse non tutti autentici) di carattere sentenzioso. Che un autore di mimi (un genere grossolano, di facile appetibilità, spesso basato su frizzi, lazzi e futilità mimiche) sia ricordato per i suoi versi moralistici può sembrare contraddittorio. Il fatto, però, si giustifica considerando che Publilio moderò la trivialità del mimo con un contenuto più serio, quale può essere una sensata riflessione sulla vita, e un linguaggio più garbato.

LA TRAGEDIA

MARCO PACUVIO (220 a. C. - ca. 130 a. C.)

Vita
Marco Pacuvio, di origine osca, nacque a Brindisi nel 220 a.C.. Sua madre era sorella del grande Ennio che, quindi, era suo zio. Verso il 200 a.C. Pacuvio venne a Roma dove iniziò la sua attività di poeta e di pittore. Nell’Urbe, egli fu in rapporto di amicizia con Scipione Emiliano, Emilio Paolo e Lelio e quindi entrò a far parte del circolo letterario degli Scipioni.
Verso il 140 a.C., per vecchiaia e per cattiva salute, Pacuvio si ritirò a Taranto, dove, secondo la tradizione, gli fece visita il nuovo astro della scena romana, Lucio Accio, di passaggio verso l’Asia.
Nella città ionica Marco Pacuvio morì verso il 130 a.C..

Opere
Marco Pacuvio fu pittore, musico, scrisse satire, ma fu soprattutto un tragediografo, autore di “fabulae cothurnate”, sia pure in numero relativamente non elevato. I titoli sicuri delle sue opere sono 13, di cui oltre metà relativi alla guerra di Troia (Armorum iudicium, Teucer, Chryses, Hermiona, Dulorestes, Orestes, Niptra, Iliona), due al mito tebano (Antiopa, Pentheus), e poi Atalanta, Medus, Periboea.
Pacuvio scrisse anche una “fabula pretesta”, intitolata “Paulus”, con la quale celebrò le gesta del suo amico Emilio Paolo, il vincitore della decisiva battaglia di Pidna del 168 a.C. e conquistatore della Macedonia.
Delle opere di questo grande tragediografo ci restano circa 400 versi conservatici, per la maggior parte, nelle opere di Cicerone che di Marco Pacuvio era un grande ammiratore.

Giudizio
Pacuvio non seguì, come Ennio, un modello prevalente. Per quanto si può giudicare dal poco che è pervenuto, la sua ispirazione fu varia e l'elaborazione del mito originale. In genere Pacuvio dovette essere molto accurato nella sua produzione; le trame sono spesso complicate e abbondano le scene patetiche. Secondo il giudizio degli antichi, le migliori tragedie di Pacuvio furono: “Iliona”, che racconta della figlia di Priamo re di Troia la quale, nel tentativo di salvare Polidoro, anch’egli figlio di Priamo e quindi suo fratello, è causa della morte del proprio figlio; “Teucer”, cioè la storia di Teucro che, ritornato dalla guerra di Troia senza il fratello Aiace, è accolto dalla maledizione del padre; la Niptra, che narra la tragica fine di Ulisse per opera dell’inconsapevole figlio Telegono.
Pacuvio doveva piacere anche per le sentenze, con le quali condiva le sue tragedie, delle quali ci è rimasta ancora qualcuna, come questa riportata nelle “Notti Attiche” di Aulo Gellio: “Odio gli uomini che sono filosofi a parole e codardi nei fatti”.

Stile
Marco Pacuvio fu indicato dalla tradizione posteriore come maestro dallo stile elevato e poeta dotto; Terenzio Varrone lo giudicò il miglior tragediografo di Roma; Cicerone, forse anche a causa della generale povertà della tragedia latina, nel “De oratore” lo lodò moltissimo per l’accuratezza dello stile … ed il giudizio dell’Arpinate è sempre molto importante.

Fortuna Nell’antichità alcune tragedie di Pacuvio godettero di una grande e meritata fama.


LUCIO ACCIO (170 - 84 ca. a. C.)

La vita
Lucio Accio, di umile origini, nacque a Pesaro nel 170 a.C. da genitori liberti, che forse facevano parte dei colonizzatori che nel 184 a.C., al seguito di Quinto Fulvio Nobiliore, avevano fondato la città.
In seguito Accio si trasferì a Roma dove per lo più visse e dove, nel 140 a.C., fece rappresentare la sua prima tragedia. Nella città capitolina, Lucio Accio non entrò a far parte del circolo culturale degli Scipioni, di cui, invece, faceva parte Pacuvio, il tragediografo che in quegli anni andava per le maggiori. Motivo di questa esclusione è senza dubbio la sua origine servile. Considerando, però, che di quel circolo erano membri o lo erano stati personaggi come Livio Andronico, Terenzio (schiavi), Ennio e Pacuvio (cittadini osci); non è da trascurare l’ipotesi che a questa esclusione, in buona parte, contribuì il suo carattere fiero e ambizioso, ma anche tracotante e borioso: tutto contrastava con l’ambiente aristocratico e raffinato che era il circolo degli Scipioni. Non solo non ne fece parte, ma Accio fu in aperta ostilità con quel cenacolo, al punto da suscitare le ire di Lucilio, che nelle sue satire lo fece spesso bersaglio di violente frecciate.
Molto probabilmente la verità sta nel fatto che Lucio Accio simpatizzava di più con gli esponenti della tradizione romana, con i conservatori. A Decimo Giunio Bruto, che vinse i Lusitani nel 138 a.C., ad esempio, il poeta dedicò il “Brutus” che rappresentava la cacciata di Tarquinio il Superbo ad opera del suo famoso antenato.
Tra gli appartenenti del circolo degli Scipioni, probabilmente, Accio provava stima e simpatia solo per Marco Pacuvio, del quale può essere considerato il successore. Di questo affetto, peraltro, troviamo testimonianza nelle “Notti Attiche” di Aulo Gellio. Da questi, infatti, sappiamo che Lucio Accio, dovendosi recare in Asia, passò per Taranto ed andò a far visita proprio a Pacuvio, ormai in età molto avanzata ed afflitto da una malattia cronica.
L’anziano poeta, con molta cortesia, lo invitò a trattenersi alcuni giorni presso di lui e, durante la permanenza, Accio, dietro sua richiesta, gli lesse la tragedia “Atreo”, opera che aveva appena terminato.
Pacuvio apprezzò l’opera del suo ospite anche se la giudicò un po’ acerba. Per l’occasione Gellio, nelle “Notti Attiche”, ci tramanda un gustoso aneddoto. Infatti al giudizio di Pacuvio che aveva giudicato l’opera troppo acerba, sembra che Accio abbia risposto: - “È proprio così e non me ne rincresce: spero, infatti, che sarà migliore quello che scriverò in seguito. Agli ingegni dicono che succede come alla frutta: quella che dapprima è dura ed acerba, diventa tenera e dolce; quella che invece fin dall’inizio è molle, non matura in seguito, ma marcisce.
Lucio Accio ebbe una vita lunga tanto che poterono conoscerlo, ben addentro al primo secolo, Cicerone e Terenzio Varrone.
Incerto è il luogo della sua morte che avvenne intorno all’anno 84 a.C..

Le opere
Per le sue numerosissime tragedie (fabulae cothurnate), scritte in 40 anni e di cui si conoscono 45 titoli (tra cui Achilles e Medea) e oltre 600 versi, Accio attinse, spesso, al ciclo epico troiano, a quello dei Pelopidi e ad altri non meno foschi e truci imitando soprattutto Euripide.
Due sole sono praetextae, ossia ispirate alla storia romana: il “Decius seu Aeneadae”, sul sacrificio in battaglia dei tre Deci e in particolare di Publio a Sentino (295 a. C.) e il Brutus sulla caduta dei Tarquini per opera di Bruto. Anche di queste due opere ci è giunto poco, solo una quarantina di versi. Sull'esempio di Ennio, Lucio Accio si dedicò anche ad altre produzioni: condusse studi eruditi, di ortografia e di retorica (Didascalica) e compose un poema epico-storico (Annales), poesie satiriche ed erotiche e sulle feste dell’anno.

Giudizio
Il teatro di Accio, che ebbe grande e duraturo successo, aveva effetti di violenta emozione, con personaggi grandiosi ed un uso ricercato della retorica. Accio contese a Pacuvio la palma di miglior tragediografo latino; da alcuni studiosi è considerato addirittura il più grande.




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